Intervista esclusiva di Antonello Sette al professor Massimo Massetti, direttore dell’Area Cardiovascolare e della Cardiochirurgia del Policlinico Gemelli di Roma

Professor Massetti, il 25 gennaio la Fondazione Dignitas Curae, di cui lei è appassionato Presidente, presenterà alla Camera dei Deputati un progetto destinato a rivoluzionare il modo di curare i pazienti. Abbiamo forse tutti dimenticato che dietro qualsiasi malattia c’è una persona, con tutto il suo vissuto, le sue aspettative e la sua voglia di vivere, che non può essere sacrificata alla superspecializzazione e alla visione autonoma per singoli settori della medicina?

“Parto da una constatazione fattuale incontestabile e per molti versi amara. Il sistema sanitario versa in una condizione di crisi progressiva, apparentemente irreversibile, di sostenibilità e anche, purtroppo, di qualità percepita dal paziente. Il quadro d’insieme, quotidianamente descritto dai media, è in genere basato su interminabili liste d’attesa, sulla congestione dei reparti di pronto soccorso, sulla carenza endemica dei medici e degli infermieri e, a monte di tutto, sull’insufficiente allocazione delle risorse finanziarie. È una crisi che abbraccia diversi profili, che si è aggravata nel corso degli anni, tanto da configurare, a giudizio di molti, il fallimento del sistema sanitario nazionale, ovvero di quel meraviglioso strumento, creato nel 1977, che ha garantito per tanti anni cure universali e gratuite a tutti i cittadini, compresi quelli non residenti ma presenti in Italia. Insieme alla stragrande maggioranza dei colleghi, che operano quotidianamente negli ospedali, siamo concordi nel ritenere che l’organizzazione della tutela della salute sia entrata in un circolo vizioso, che assomiglia a un vicolo cieco, allo stato delle cose irreversibile”.

Professore come si esce da questa morta gora di buone intenzioni naufragate?

“Nell’ambito di un contesto generale sempre più allarmante, da tempo si sono succeduti numerosi tentativi di soluzione contraddistinti da un denominatore comune: quello, cioè, di essere orientati alla revisione di un modello di cura ormai superato in quanto il sistema continua a curare la malattia, anziché il malato. È un modello che si basa sul mero e angusto ambito della prestazione”.

Ci può fare un esempio concreto di questo approccio perverso, che aggredisce la malattia, ma dimentica l’uomo?

“Le faccio l’esempio di un paziente che accusa un problema cardiovascolare e, nel caso specifico, ha una valvola cardiaca che non funziona. L’iter di cura inizia normalmente con una visita del medico di base che, individuato il problema, indirizza il suo assistito da uno specialista. A questo punto, non siamo neppure a metà del guado. Lo specialista suggerisce una nutrita serie di esami da eseguire nell’ospedale più vicino. Dall’ospedale periferico si passa poi, ad una struttura che offre prestazioni complesse perché al suo interno sono presenti tutte le specialità. Il nostro paziente arriva in un reparto di cardiologia e da lì viene trasferito finalmente ad uno di cardiochirurgia, dove verrà operato. Sembra il gioco dell’oca o l’odissea di Ulisse ma è, invece, la corsa ad ostacoli ordinaria di un malato, che finisce fatalmente per perdere la fiducia in un sistema che dovrebbe curarlo in tempi rapidi piuttosto che spostarlo da un luogo all’altro, senza una visione d’insieme. È un percorso di cura frammentato, alla ricerca di competenze specifiche, di risorse strutturali e tecnologiche adeguate per erogare la risposta terapeutica corretta”. In questo contesto anche il rapporto umano tra curante e malato, che ha contraddistinto da sempre il valore della cura, si è impoverito e ha condotto sempre più frequentemente ad esperienze dei malati considerate “traumatiche” sotto il profilo psicologico ed umano.

In buona sostanza, in Italia siamo curati male?

“No e dal punto di vista della qualità delle singole prestazioni siamo un’eccellenza assoluta, sul piano della tecnologia e della ricerca scientifica; ma se si valuta la cura dal lato del paziente si capisce che il modello è inadeguato oltre che partecipe anche della perdita della sostenibilità complessiva del sistema. Gli esami sono normalmente ripetuti ad ogni passaggio anche nella stessa struttura, è difficile ricostruire la storia sanitaria dei pazienti, le liste di attesa si allungano e il paziente, spesso, perde il riferimento e la fiducia in chi lo cura. Tutto questo è la conseguenza di un sistema ancorato alle prestazioni che ha anche trasformato gli ospedali in aggregati di reparti iperspecialistici, dove la cura del paziente è frammentata e non sempre coordinata.

Da dove si ricomincia? Come si riaccende la luce alla fine di questo oscuro tunnel? E, soprattutto, come si può ristabilire un rapporto di fiducia tra il sistema sanitario e pazienti?

“I problemi attuali della sanità non sono limitati al volume degli investimenti ma attengono anche, se non soprattutto, ad un modello di cura superato, da tempo che risulta inefficiente ed oneroso. Non vedo altra soluzione che ripartire dal problema di salute e riposizionare il malato al centro delle cure, mettendo a sua disposizione le competenze, alias gli specialisti, necessari per assisterlo e le tecnologie per le terapie. Peraltro, questo paradigma di cura, opposto a quello che stiamo vivendo, è un modello di gestione sanitaria conosciuto, sebbene non sia stato concretamente applicato o implementato”.

È così in tutto il mondo?

In Italia le cose vanno in generale come ho provato a descriverle ad eccezione di modelli che esistono da tempo in ambito oncologico e trapiantologico dove l’approccio multidisciplinare e la sinergia degli specialisti concorrono all’efficacia ed efficienza della cura. Se si rivolge lo sguardo all’estero, disponiamo di qualche esperienza virtuosa in grandi Ospedali, come il Karolinska Institute di Stoccolma in Svezia o in altri ospedali oncologici degli Stati Uniti, dove i modelli di cura sono centrati sui problemi di salute del malato e non sulle singole prestazioni. Grazie a queste esperienze è stato dimostrato che a trarne beneficio non è solo la qualità della cura, ma anche la sostenibilità finanziaria.

È da questa improrogabile esigenza di cambiamento che nasce il manifesto della dignitas curae che presenterete all’evento del 25 gennaio?

Il 25 gennaio presenteremo un manifesto che non è solo un enunciato di principi e di valori di interesse universale, ma anche una sintesi di proposte concrete che vogliamo sottoporre alla valutazione delle istituzioni ed al mondo della sanità per agevolare l’adozione di un modello più efficiente e meno oneroso. Siamo del tutto consapevoli che l’obiettivo è ambizioso ma confidiamo nella possibilità di dimostrare la bontà del modello per contribuire ad una trasformazione virtuosa della sanità italiana che passi attraverso esperienze ristrette e sperimentali prima di ipotizzarne l’applicazione ad ambiti territoriali più vasti”.

SaluteIn

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