Intervista esclusiva di Antonello Sette a Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Mario Negri di Milano

Professor Remuzzi, la scoperta che avete fatto è clamorosa. Fra l’uomo di Neanderthal e la contrazione delle forme più gravi di Covid c’è un nesso evidente…

“I ricercatori dell’Istituto Mario Negri hanno accertato che una certa regione del genoma umano si associa in maniera significativa con il rischio di ammalarsi di Covid in forma grave. Lo studio è stato fatto prendendo, come riferimento, i residenti nelle aree più colpite dalla prima ondata della pandemia: Nembro, Alzano e Albino, prima di sportarci, in un secondo tempo, a Bergamo. Sono state prese in esame le situazioni, clinica e familiare, di diecimila persone, fra cui abbiamo selezionato una triade di quattrocento individui, identici fra loro, con diverse evoluzioni della malattia. Quattrocento l’hanno contratta in forma grave, con la conseguente necessità di un ricovero in ospedale, quattrocento in modo lieve e quattrocento con pochi sintomi o anche nessuno. Dalla ricerca è venuta fuori l’esistenza di un aplotipo di rischio. Per chi non lo sa, gli aplotipi altro non sono che un certo numero di geni, vicini gli uni agli altri, che si ereditano tutti insieme. Questo aplotipo di rischio si trova sul cromosoma 3 e comprende i geni che contribuiscono alla sintesi di alcuni mediatori della risposta immune e altri che presiedono all’ablazione di certe cellule degli alveoli polmonari. Ebbene, questo aplotipo di rischio arriva direttamente dall’uomo di Neanderthal, dopo essere passato attraverso almeno duemila generazioni”.

All’associazione, che a me sembra sbalorditiva, fra i geni di Neanderthal e le forme più gravi di Coronavirus, nessuno aveva pensato prima di voi?

“L’idea che il Covid grave si potesse associare ai geni di Neanderthal era già stata avanzata in uno studio dei ricercatori Hugo Zeberg e Svante Pääbo. L’originalità e la forza del nostro lavoro consistono nell’aver selezionato tre gruppi di soggetti assolutamente identici, ma con diverse evoluzioni della malattia, in rapporto alla presenza di questo aplotipo di Neanderthal. I risultati sono in qualche modo inequivocabili. Dei pazienti con forme lievi solo il quindici per cento aveva l’aplotipo di Neanderthal. La percentuale saliva al 28 per cento nei pazienti con alle spalle forme severe di malattia, come la polmonite e al 33 per quelli già ricoverati in terapia intensiva e intubati. Tutto questo vuol dire, molto semplicemente, che chi è stato esposto al virus e rientra nell’aplotipo di Neanderthal ha più del doppio di possibilità di sviluppare un Covid grave, ovvero la polmonite, e un rischio almeno triplo di contrarlo nelle forme più gravi, sino alla necessità del ricorso alla ventilazione”.

Per la vostra ricerca è stata fondamentale la scelta di determinate località?

“La domanda mi consente un chiarimento che ritengo doveroso, anche per eliminare la possibilità di equivoci. Come è scritto anche nelle premesse del nostro lavoro, che è stato pubblicato proprio in questi giorni su “iScience”, la ricerca portata a termine non spiega assolutamente perché a Bergamo, o in altri Comuni della Lombardia, ci sia stata una vera e propria esplosione di casi di Covid. L’aplotipo incriminato è presente non solo a Bergamo e nei Comuni che abbiamo preso come base di riferimento per la nostra ricerca, ma in tutta la popolazione italiana e probabilmente nell’intera Europa. Per l’Africa bisogna fare un ragionamento diverso, perché questo tipo di aplotipo non c’è dal momento che lì i Neanderthal non ci sono mai stati, mentre, al contrario, in alcune zone dell’Asia la sua presenza è molto più alta che da noi. In Bangladesh, in particolare, è altissima. A questo proposito, è interessante osservare come in Inghilterra abbiano accertato che i residenti di origine bengalese hanno una probabilità doppia di morire di Covid rispetto agli inglesi. Quello che la nostra ricerca spiega e conferma, una volta per tutte, è che esistono delle variazioni genetiche associate a una malattia più o meno grave”.

Quanto tempo e quante energie avete speso per questo vostro straordinario lavoro di indagine scientifica?

“È stato un lavoro enorme, perché abbiamo letto e appuntato migliaia di variazioni, che si chiamano polimorfismi, su tutto il genoma. Abbiamo guardato centoventimila varianti di geni, implicati nell’ingresso del virus nelle cellule, ventiquattromila varianti implicate nella risposta immunitaria al virus e sedicimila varianti di geni, che influenzano la severità e le complicanze del Covid. Per ogni persona abbiamo complessivamente analizzato quasi nove milioni di varianti. Uno studio sterminato, da cui sono usciti, come da una scatola magica, tanti geni potenzialmente importanti. Il più importante di tutti, perché direttamente associabile al Covid grave, è quello di Neanderthal. In più il nostro studio ha identificato altri diciassette loci sul DNA, che non erano mai stati prima riportati, che evocano la suggestione, ma al momento ancora non dimostrano per l’insufficiente base statistica, di una loro associazione con la severità del Covid o almeno con una concreta suscettibilità”.

La domanda che sorge spontanea è se e in che modo la vostra pregevole ricerca possa tornare utile?

“La nostra scoperta può tornare utile perché ora sappiamo che ci sono tre proteine, associate ai tre geni del cromosoma ma tre, in grado di richiamare i globuli bianchi, causare infiammazione e un gene che regola la funzione e lo sviluppo delle cellule. Le proteine, corrispondenti ai geni, noi ora le possiamo studiare, capirne la funzione ed eventualmente accertare se qualcuna di queste proteine è terapeuticamente manipolabile al fine di aiutare i malati di Covid. È una importante ricaduta da cui partirà il successivo studio, che abbiamo già messo in cantiere. I geni di Neanderthal, con le oltre duemila generazioni che hanno attraversato, potrebbero riservarci altre sorprese”.

SaluteIn

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