Intervista esclusiva di Antonello Sette ad Alessandro Albizzati, Direttore Struttura Complessa di Neuropsichiatria Infantile dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano
Caro dottore stiamo vivendo una stagione terribile dal punto di vista della salute mentale dei bambini e degli adolescenti…
“Siamo di fronte ad una condizione di emergenza per una fascia di età che si attesta fra la preadolescenza e l’adolescenza piena e va da quella che viene definita di disagio psichico a una condizione, che poi sfocia nella vera e propria psicopatologia”.
Quanto hanno inciso sull’emergenza in corso le restrizioni di spazio e di tempo legate al Covid?
“La situazione era già grave prima del picco post-pandemico. Già nel 2018 e 2019 tutti gli indicatori segnalavano una situazione che si stava rapidamente aggravando. Abbiamo a che fare con un segmento di popolazione investita da una serie di problematiche, disturbi d’ansia, depressione e disistima profonda, che sfociano in atti, in quanto tali segnalati, di autolesionismo, tentati suicidi od esplosione di disturbi alimentari. Questi ragazzini e, soprattutto, le ragazzine, vanno incontro a problematiche legate, in primis, alla regolazione delle emozioni negative, quali la frustrazione, l’insuccesso, l’incapacità a realizzarsi o a realizzare i compiti richiesti alla loro età. Mi viene in mente preliminarmente la questione scolastica”.
Scuola e famiglia, torna l’eterno complicato intreccio…
“Sì, tutto si intreccia in un ambito per così dire più largo, quello scolastico da un lato e quello familiare dall’altro, assimilati da una risposta insufficiente degli adulti. I bambini, che poi diventano adolescenti, crescono dapprima in un clima sommariamente definibile come iperprotettivo, con la riuscita realizzazione di piccoli obiettivi, dalla preadolescenza in poi, si ritrovano a doversela cavare da soli, con accanto genitori vistosamente infragiliti e poco competenti nel fronteggiare i conflitti interiori dei loro figli. Dall’altra parte della via c’è una struttura scolastica, altrettanto inflazionata. Lo dico per esperienza diretta. A Milano, dove io sono direttore dell’unica struttura specializzata, abbiamo di fronte una situazione scolastica, soprattutto nelle scuole di livello superiore, dove alla richiesta performativa sempre più alta gli alunni non riescono a rispondere. Il terzo pilastro deformante sono i device. Quel mondo, più o meno oscuro, dei social e dei videogiochi, generatore di una dipendenza, direttamente collegata all’uso e all’abuso degli smartphone, che hanno ulteriormente indebolito le capacità relazionali dei ragazzi”.
Vittime di un sistema ormai fuori controllo…
“Ovviamente non tutti ne sono colpiti nella stessa maniera, perché a farne le spese sono soprattutto i più fragili e più in difficoltà. La caduta di relazioni continue con i propri coetanei, con tutte le dinamiche, da vivere e fronteggiare, vengono deplorevolmente a mancare”.
Se questo è lo scenario, deprimente e allo stesso modo inquietante, le chiedevo che cosa si può fare o, per meglio dire, come deve cambiare il mondo degli adulti, che al momento appare come rassegnato al peggio?
“C’è innanzi tutto da rettificare una risposta prettamente di ambito sociale, dove si intreccia la psicologia e la pedagogia sociali. E’ uscito ultimamente un articolo di un grande pedagogista, quale io considero Daniele Novara, dove denuncia la caduta della tensione pedagogica ed educativa, che c’è stata da quindici anni fa in poi, a favore della sfera diagnostica, con la prepotente discesa in campo della neuropsichiatria infantile e della psicologia clinica, rispetto a situazioni dove la comunità educante, largamente intesa, dovrebbe riprendere a svolgere l’indispensabile ruolo di indirizzo e rimodulare le coordinate, soprattutto in quell’area grigia, etichettata come disagio, laddove l’atto educativo è sicuramente prioritario”.
Mi può fare un esempio concreto di questo doppio binario, venuto a mancare?
“Durante la pandemia molte situazioni si sono deteriorate, in primis naturalmente per la chiusura delle scuole, laddove tutta l’attività relazionale di tutti i ragazzi si è potentemente interrotta. Lo sa chi è sopravvissuto? Alcune aree di resistenza, mi viene in mente lo scoutismo, dove tutta una serie di intenzioni educative, pedagogiche e relazionali, non sono state sopraffatte dall’onda epidemica delle chiusure. È un piccolo esempio, ma può aiutare a dimostrare come tutta la comunità educante, largamente intesa, debba riprendere una sua centralità per fronteggiare, tempestivamente e con successo, l’area grigia del cosiddetto disagio, prima del ricorso al pronto soccorso e ai reparti di Neuropsichiatria Infantile, che non possono, da soli, reggere l’urto di una popolazione così allargata. Ci sono costantemente sollecitazioni e richieste che hanno una valenza medico-sanitaria, ma c’è tutta un’area, quella che abbiamo definita del disagio, che andrebbe affrontata diversamente. Penso anche ai pediatri. Tra i loro compiti, tutti importanti, ci dovrebbe essere anche quello di aprire fronti a tutto campo con le famiglie. Quella del pediatra di base è una figura a tutt’oggi fondamentale anche per delineare progressivamente tracce di crescita valide e utili. Le corsie d’ospedale devono tornare a essere l’extrema ratio; altrimenti il sistema scoppia e a pagarne il conto, amarissimo, sono i bambini e gli adolescenti”.