Intervista esclusiva di Antonello Sette ad Antonella Viola, professoressa ordinaria di Patologia Generale all’Università di Padova, scienziata e divulgatrice

Professoressa Viola, lei ha scritto un saggio, pubblicato da Feltrinelli nel 2022, che significatamente si intitola “Il sesso è (quasi) tutto. Evoluzione, diversità e medicina di genere”. Le chiedo, innanzi tutto, che cosa si intende per medicina di genere…

“Se permette, inizierei da un altro concetto, più ampio, quello della Gendered Innovations. Nel 2005, Londa Schiebinger, professoressa di Storia della Scienza a Stanford, coniò il temine “gendered innovations” per il suo progetto di ricerca che si occupa dell’impatto di sesso e genere nella ricerca e nell’innovazione. Il progetto, ufficialmente lanciato nel 2009 a Stanford, ha avuto un enorme diffusione in tutto il mondo  ed ha portato anche la Commissione Europea a creare un gruppo di lavoro specifico in questo campo di ricerca. Perché è così importante considerare sesso e genere nella ricerca e nell’innovazione? Per esempio per il diritto alla giusta cura.

Lo scopo della comprensione della differenza in termini fisiologici tra uomini e donne è importante per tutelare la salute femminile. Per troppo tempo, infatti, la medicina si è occupata prevalentemente della patologia declinata al maschile, tralasciando differenze che sono fondamentali per prevenire, diagnosticare e curare le malattie delle donne. La medicina di genere – detta anche medicina genere-specifica – si occupa appunto di studiare le differenze esistenti tra uomini e donne nella manifestazione delle malattie e nell’approccio terapeutico per affrontarle”.

Ma uomini e donne sono così diversi da un punto di vista medico?

“In alcuni aspetti sì, lo sono. Le differenze genetiche legate alla presenza di una “coppia diversa di cromosomi sessuali e i livelli diversi di ormoni sessuali circolanti hanno conseguenze anche sulla fisiologia dei due sessi ben oltre gli aspetti legati alla riproduzione.

Già a livello strutturale e morfologico, maschi e femmine mostrano importanti e ben note diversità, con gli uomini tipicamente forniti di una maggiore massa muscolare e ossea e una minore massa grassa rispetto alle donne.  Mentre queste differenze sono però ben note a tutti, altre, che riguardano meno l’aspetto esteriore e più il funzionamento dei nostri organi interni, sono poco conosciute.

Le dimensioni dei polmoni e delle vie respiratorie, per esempio, sono diverse in uomini e donne. Anche il cuore delle donne è più piccolo nel complesso e, in particolare, in alcune aree specifiche (ventricolo sinistro); questo fa sì che la quantità di sangue pompata dal cuore di una donna sia minore rispetto a quella dell’uomo. Al contrario, il cuore di una donna batte più velocemente di quello di un uomo.

Per molto tempo, si è ritenuto che le patologie cardiocircolatorie fossero un problema maschile. Ed in effetti, se osserviamo solo la popolazione giovane, gli uomini hanno un rischio cardiovascolare maggiore rispetto alle donne della stessa età. Il cuore delle donne è stato quindi poco seguito e studiato. Oggi però sappiamo che, anche nel sesso femminile, le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte. Già in ambito di prevenzione, emergono le prime differenze importanti. Oltre ai classici fattori di rischio comuni ai due sessi, tra cui ipertensione, obesità e ipercolesterolemia, sulle donne agiscono fattori biologici specifici, come le gravidanze e la menopausa, o co-morbidità che sono più frequenti o si manifestano in maniera diversa in uomini e donne, come l’ansia, per richiamare l’esempio già citato in precedenza, o la depressione; infine, non sono da sottovalutare i fattori legati alle condizioni socio-economiche e culturali, che ancora oggi, in tutto il mondo, penalizzano il sesso femminile.

Il documento “The Lancet Women and Cardiovascular Disease Commission: reduce the global burden by 2030”, pubblicato a maggio del 2021 e realizzato da una commissione internazionale di 17 esperti di 11 Paesi, rappresenta il primo rapporto globale sulle malattie cardiovascolari nelle donne. Il rapporto inizia così:

“Nonostante ogni anno siano responsabili del 35% dei decessi nella popolazione femminile, le malattie cardiovascolari nelle donne sono ancora oggi sottostimate, poco studiate dalla scienza, diagnosticate male e in misura minore rispetto al loro reale impatto e non curate in maniera appropriata, con le donne ancora sottorappresentate negli studi clinici dedicati alle nuove terapie.” Un quadro tutt’altro che incoraggiante.

In Italia, le malattie cardiovascolari causano il 43% delle morti femminili, contro il 33% di quelle maschili. Eppure quando si parla di prevenzione, diagnosi e terapia, si parla ancora al maschile.

Fino a non molto tempo fa – e in alcuni sfortunati casi ancora oggi – a tutti gli studenti di medicina veniva insegnato che i tre principali sintomi dell’attacco cardiaco sono:

1)        Dolore forte, intenso e prolungato o senso di oppressione, sensazione di costrizione o di schiacciamento al centro del petto, come una morsa che stringe;

2)        Diffusione del dolore al braccio sinistro, al destro o a entrambe le braccia, al collo, alla mandibola, alla schiena, o allo stomaco;

3)        Sudorazione fredda e nausea.

Tuttavia, quando si passa dalla teoria alla pratica, si scopre che, mentre questi sono i segni tipici che si manifestano negli uomini, solo una donna su tre avvertirà queste sensazioni durante un attacco cardiaco. Al contrario, nella maggior parte delle donne, l’infarto del miocardio si manifesterà in modo più subdolo, meno eclatante, con:

1)        Affanno (respiro corto o sensazione di mancanza di respiro) anche a riposo e senza dolore al petto;

2)        Nausea, vomito e sudorazione fredda, che spesso vengono confuse con infezioni gastrointestinali;

3)        Dolore alla schiena, alla spalla, al collo o alla mascella che si protrae nel tempo;

4)        Stanchezza prolungata, debolezza, sensazione di fatica o di ansia.

La conseguenza di questa sintomatologia differente e poco conosciuta fa sì che spesso, nelle donne, l’infarto non venga riconosciuto in tempo e che quindi i trattamenti non siano tempestivi o siano addirittura sbagliati, portando le pazienti alla morte”.

Perché è bene sottolineare oggi queste differenze?

“Certamente non per prestare il fianco a chi vuole utilizzarle in maniera strumentale al fine di negare la parità di diritti o l’uguaglianza dei sessi in termini di capacità e potenzialità nei vari ambiti del lavoro. Nessuno studio ha mai stabilito che le donne siano meno intelligenti, motivate, organizzate degli uomini, né che il loro cervello le renda meno portate alla matematica e più inclini alle scienze sociali, per citare uno dei più comuni stereotipi. A dirla tutta, nonostante i numerosi tentativi, le neuroscienze non hanno identificato differenze significative nel funzionamento del cervello di uomini e donne, proprio perché non esiste un cervello maschile e uno femminile. Certamente, anche in questo organo sono presenti delle piccolissime differenze in termini di struttura o dimensioni, come accade per il fegato, ma in termini di funzionamento, connessioni e attività il nostro cervello plastico è molto più influenzato dall’esperienza che dalla biologia.

La ragione per cui oggi se ne parla così tanto è che troppo a lungo la differenza biologica e fisiologica di uomini e donne è stata ignorata e questo ha causato un ritardo nella comprensione dei fattori che determinano non solo la salute e la malattia nel sesso femminile, ma anche nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura delle patologie delle donne. Oggi cominciamo ad essere consapevoli dell’esistenza di queste differenze, ma non è sempre stato così. Per molto tempo le caratteristiche fisiologiche legate al sesso sono state sottovalutate, per una serie di ragioni. Una di queste è che, a causa del ciclo mestruale e delle gravidanze, i soggetti di sesso femminile sono sempre stati ritenuti più variabili rispetto a quelli di sesso maschile. E, poiché quando si fanno esperimenti si tende a ridurre la variabilità per avere dati più facilmente analizzabili, la ricerca si è spesso basata su esperimenti che coinvolgevano animali o soggetti di sesso maschile. Nei casi migliori, venivano arruolati soggetti di entrambi i sessi, senza però poi distinguere i risultati in fase di analisi. Non solo: molti studi di fisiologia e fisiopatologia sono iniziati in tempi lontani, nelle scuole di medicina o nelle scuole militari che fornivano i soggetti sani da arruolare nelle sperimentazioni. Non deve quindi sorprendere che buona parte della nostra medicina sia riferita alla fisiologia del maschio caucasico di circa 70 Kg di peso”. 

Tutte questi fattori che pesano sulla salute delle donne sono di natura biologica, ma allora perché parliamo di medicina di genere? Cosa ha a che fare il genere con la medicina?

“Secondo la definizione più ampia data dall’organizzazione mondiale della sanità (OMS), la medicina di genere, studiando tutto ciò che determina lo stato di salute e di malattia di ogni persona, non prende in esame solo l’influenza delle differenze biologiche definite dal sesso, ma anche le disparità socio-economiche e culturali. Ed è proprio qui che entra in gioco il genere. Le vie attraverso cui i determinanti del genere agiscono sulla salute sono molteplici e complessi e includono: pratiche, valori, norme e comportamenti discriminatori; maggiore esposizione o vulnerabilità alla malattia, alla disabilità o alle lesioni; un sistema sanitario discriminatorio; una ricerca scientifica discriminatoria. Tutti questi fattori agiscono insieme per creare disuguaglianza in termini di salute”.

Mi può fare alcuni esempi concreti?

 “Nel mondo, le donne vivono in condizioni socio-economiche svantaggiate rispetto agli uomini: meno proprietà, salari più bassi, impieghi precari. Questo significa minori risorse per la propria salute – dall’alimentazione alle terapie – e minore potere per influenzare le istituzioni a occuparsene. D’altro canto, sono spesso le donne a farsi carico di lavori pesanti e difficili, che ne debilitano il fisico e la mente. Senza andare troppo lontano, basti pensare al carico di lavoro che una donna ha quando, oltre a dover andare a lavorare in fabbrica o in ufficio, deve poi anche occuparsi da sola della casa, dei figli o dei genitori anziani. In molte società, le ragazze non possono studiare: un livello culturale inferiore agli uomini, oltre a renderle dipendenti da questi e a mantenerle in uno stato socio-economico di inferiorità, fa sì che abbiano anche minore consapevolezza del proprio corpo e di come mantenerlo in salute.

La limitazione della libertà femminile causa anche un minore accesso allo sport e all’attività fisica in generale. Questa sedentarietà culturalmente imposta, insieme a condizioni socio-economiche e culturali svantaggiose, si riflette direttamente sulla salute delle donne in termini di predisposizione all’obesità, all’osteoporosi, alle malattie cardiocircolatorie e persino alle malattie autoimmuni”.

Pensa che si stia andando davvero verso una medicina genere-specifica?

“Penso di sì, perché una ricerca scientifica e clinica che non consideri l’importanza di sesso e genere è una ricerca che provoca discriminazione nell’accesso alle cure e che blocca lo sviluppo di quella medicina personalizzata a cui tutti puntiamo. Negli ultimi anni, il problema della medicina di genere si è riproposto anche con le terapie innovative legate alla cura dei tumori sfruttando il sistema immunitario. Nonostante sappiamo da tempo quanto siano diverse in termini qualitativi e quantitativi le risposte immunitarie di uomini e donne, quando l’immunoterapia dei tumori è passata all’uso sui pazienti, ci si è accorti che il sesso gioca un ruolo importante nel determinarne il successo. Pazienti affetti da cancro ai polmoni o melanoma mostrano risposte diverse all’immunoterapia a seconda che siano uomini o donne e questo ci deve spingere a analizzare subito e meglio il ruolo del genere nell’efficacia di queste terapie così innovative e promettenti.

L’importanza della corretta analisi dei dati non è legata “solo” alla possibilità di offrire la migliore cura possibile a ogni persona; anche aspetti puramente di mercato possono beneficiare di un approccio di innovazione e ricerca di genere. Tra il 1997 e il 2000, l’agenzia del farmaco statunitense FDA ha ritirato dal mercato 10 farmaci per gli effetti collaterali gravi che si sono verificati nella popolazione. Otto di questi farmaci avevano un profilo di tossicità alto nelle donne. Oltre a evitare inutili sofferenze, se si fosse applicato un corretto approccio di ricerca e analisi dei dati, le case farmaceutiche avrebbero risparmiato molti miliardi di dollari”.

SaluteIn

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