Intervista esclusiva di Antonello Sette a Eugenio Santoro, chirurgo oncologo, primario emerito, medaglia d’oro della Sanità Pubblica.

“Ho scelto di fare il medico per una tradizione di famiglia, che risale al 1550, come testimoniamo le prove documentali, reperibili nelle parrocchie dei paesi della Calabria che ruotano intorno a Rossano Calabro, da cui io provengo, accanto alle certificazioni di battesimo, di matrimonio e di morte”.

Il medico per una tradizione secolare, ma perché proprio il chirurgo?

“La chirurgia è stata una suggestione irresistibile, perché mio zio, l’ultimo dei medici della mia famiglia prima di me, faceva il chirurgo. Aveva studiato alla corte di un grande maestro, quale è stato il senatore Giovanni Pascale, a cui è oggi intitolato l’Istituto Tumori di Napoli. La chirurgia mi ha affascinato sin da subito, anche perché ti mette in contatto non solo con il dolore, ma con la morte. Un confine sottile, di cui puoi diventare l’arbitro. Strappare una persona alla morte è stato, ed è ancora, il senso quotidiano del mio essere medico. Non a caso ho scelto la chirurgia dei tumori, dove o si guarisce o si muore”.

La vita straordinaria di Eugenio Santoro è trascorsa tra sale operatorie, lacrime di gioia e di dolore. Ha accompagnato con sensibilità, talento, abilità e sapienza, tutti i profondi cambiamenti, che hanno attraversato la chirurgia, riuscendo non solo a rimanere al passo, ma anche a precorrere, di volta in volta, i tempi. Caro professore come è cambiata la chirurgia nei suoi quasi sessanta di professione?

“Il primo grande cambiamento era già avvenuto. La chirurgia moderna arriva in Italia all’inizio del secolo scorso con l’anestesia, che era stata inventata e sperimentata negli Stati Uniti intorno alla metà dell’Ottocento, insieme all’antisepsi, al campo operatorio pulito, ai guanti, alle mascherine e ai cappellini da chirurgo. Dalla chirurgia esterna si passa finalmente a quella viscerale. La seconda grande rivoluzione attraversa la seconda guerra mondiale, con l’avvento della anestesia per intubazione e degli antibiotici. L’intubazione consente l’estensione della chirurgia anche a campi sin lì esplorati solo in modo pionieristico, come l’asportazione dello stomaco, del colon, del retto, le resezioni del pancreas e del polmone. E’ stata una svolta epocale, che in buona misura ho vissuto anch’io. Poi, alla fine del terzo millennio, è arrivata la terza rivoluzione. Con le potenzialità aperte dall’intubazione e dagli antibiotici, la chirurgia era diventata aggressiva, con asportazioni e tagli sempre più radicali, specie nelle patologie più gravi. Per un piccolo tumore si portavano via tutto lo stomaco o tutta la mammella. La nuova frontiera è la chirurgia conservativa, che riporta al centro dell’attenzione la salvaguardia dell’integrità della persona e della qualità della sua vita. Al contrario di quando, dopo aver asportato tutto l’eliminabile, affidavi la sopravvivenza del paziente a un sacchetto appeso sopra la pancia e la salvezza di una vita aveva, come prezzo disumano, la condanna all’infelicità perpetua per le pesantissime limitazioni delle relazioni interpersonali. La chirurgia conservativa spazza via tutto questo. Non si asporta più tutto a tutti, ma solo il minimo indispensabile. Da lì nasce la chirurgia laparoscopica. Le grandi cavità non si aprono più. La chirurgia invasiva a cielo aperto fa posto a una video chirurgia. che esamina preventivamente ed eventualmente interviene, limitando il disagio del paziente”.

Professore ci disegna i contorni e i confini della chirurgia che verrà?

“Credo che si si proseguirà e si bruceranno altre tappe sulla strada della conservazione. Ricordo “Viaggio allucinante”, il romanzo di Isaac Asimov, poi diventato un meraviglioso film con lo stesso titolo che, come Jules Verne, prefigura il futuro con cent’anni di anticipo. Il protagonista è uno scienziato, colpito da una trombosi cerebrale, ma nel contempo depositario di formule e segreti, che escludono sul nascere ogni tentazione di resa alla malattia. L’équipe medica, che lo ha in cura, decide di miniaturizzare un sommergibile, con scienziati altrettanto miniaturizzati a bordo, che viene iniettato nel corpo dello scienziato, sino a raggiungere il trombo, che blocca l’afflusso del sangue al cervello e a ripristinare la normale circolazione sanguigna. Quella di Asimov è un’intuizione straordinaria, che anticipa di un secolo una chirurgia che non è più fantascienza, ma la realtà che avanza. Raggiungeremo gli stessi risultati immaginati dalla fantasia di Asimov, senza sommergibili e scienziati in miniatura. Già oggi esistono delle sonde meravigliose, con le quali si può ottenere quello che sino a pochi anni fa apparteneva solo alla sfera dell’inimmaginabile e della fantascienza. Prima, per sostituire una valvola cardiaca, bisognava aprire il torace e il cuore, ricorrendo forzatamente alla circolazione extracorporea. Ora basta montare la nuova valvola su una sonda, che in appena mezz’ora provvede alla sostituzione. Dopodiché il paziente si sveglia, si alza e va a casa. Tutto questo, signori, è la favola di Asimov. Non c’è nessuna differenza”.

Professore, fra le migliaia di interventi che ha eseguito ce n’è uno, che le è rimasto dentro e non potrà mai dimenticare?

“Ricorderò, finché vivo, la mia prima operazione importante, Avevo ventotto anni. Il mio maestro Paride Stefanini mi aveva mandato in un ospedale della provincia di Frosinone a sostituire il chirurgo anziano, che aveva dovuto assentarsi dal servizio. Non avevo mai eseguito un intervento di quella portata. All’inizio avevo paura. Quella paura preventiva mi è rimasta nella testa e nel cuore. Mi sono fatto coraggio, pensando che quell’intervento l’avevo visto fare tante volte e, quindi, dovevo esserne capace. E così fu. Quando ho finito, sono andato nella mia camera, mi sono sdraiato sul letto e per la prima volta ho capito che sarei diventato un chirurgo a tutti gli effetti.  Un altro ricordo indelebile è il mio primo trapianto di fegato. Sulla scia di Paride Stefanini, avevo visto nascere dal vivo l’era dei trapianti in Italia, a partire dal primo in assoluto, eseguito all’Università di Roma. Era destino che ci provassi anch’io in prima persona. Quando ho avuto a disposizione un ospedale adeguatamente attrezzato per i trapianti, come il Regina Elena di Mostacciano, ho chiesto l’autorizzazione al ministro della Salute, che allora era Umberto Veronesi, e, dopo otto mesi di spasmodica attesa, il 12 dicembre 2001 ho finalmente eseguito il primo trapianto di fegato. Intorno a me, c’era un gruppo di ragazzi entusiasti. Quando finimmo l’intervento, scoppiò un lungo applauso di tutti i presenti. Eravamo una ventina di persone, fra medici, anestesisti e infermieri. Dietro di me, c’era anche mio figlio Roberto, giovane chirurgo, che non aveva preso parte direttamente all’intervento, ma era rimasto in piedi per tutte le cinque ore della sua durata. Applaudì fragorosamente, come tutti gli altri, ma, girandomi verso di lui, mi accorsi che aveva le lacrime agli occhi. Come le ho detto, nella famiglia Santoro i medici si susseguono dalla metà del 500. E continueranno a susseguirsi anche dopo di me…”.

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